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La Grande Guerra dei Salvesi

 

LA “GRANDE GUERRA” DEI SALVESI                                                               

di   Mino  Lezzi



                                                              
                                         
                                                                                                   Cartolina dal fronte di Romano Giuseppe di Silvio                                                                                                                                    
                                                                                 
                    



                                                                                                      PREMESSA

Gli anni 2014/2018 segnano il centenario d’inizio e fine della 1a Guerra Mondiale. In ogni nazione d’Europa si ricorda “L’Inutile Strage”, anche in Italia sono innumerevoli le manifestazioni che rievocano gli eventi tragici seguiti al 24 maggio 1915. Numerose pubblicazioni riprendono particolari e fatti, mettendo in risalto “eroi locali” o elenchi di caduti e decorati a valor militare. Il nostro comune ha dato risalto al centenario celebrando, come ogni anno, il giorno conclusivo della Grande Guerra, il 4 novembre, e accettando la collaborazione con il CESRAM (Centro Studi Relazioni Atlantico Mediterranee), collegato all’Università del Salento. Il Centro Studi ha dato origine al progetto: “Cento anni fa… La Grande Guerra”. Il Cesram, nelle persone della prof.ssa G. Iurlano e altri docenti universitari collaboratori, ha esteso l’incarico a diversi insegnanti di Storia degli istituti scolastici della provincia, fra cui la mia persona, per effettuare, sia singolarmente sia con l’aiuto degli alunni della Scuola Secondaria di I grado di Salve, una capillare ricerca di documentazione concernente i combattenti del luogo nella 1a G. Mondiale. Gli alunni delle classi terze indirizzati, oltre che da me stesso, dal validissimo ausilio delle docenti curriculari G. Tornese, L. Ciardo e S. Stivala
, hanno ricercato nelle proprie famiglie e poi portato a scuola una mole ingente di materiale, che, in aggiunta a quello recuperato dalla mia personale ricerca, costituisce un pacchetto di oltre trecento elementi interessantissimi. Questi sono così classificati: semplici diplomi di decorazione, fotografie, testimonianze orali trasmesse e raccontate dai parenti, lettere, cartoline, disegni, medaglie, ecc. Oltre allo spirito di ricerca sul territorio, l’obiettivo era di promuovere nei giovani la consapevolezza che, dai grandi avvenimenti storici, anche tragici, possono nascere esperienze di solidarietà internazionale e volontarismo, finalizzate alla costruzione della pace attraverso il dialogo tra le culture. In questo scritto, ovviamente, compaiono solo alcuni dei documenti costituenti la raccolta, ma bastano per evidenziare l’importanza della ricerca effettuata. Sono scritti e immagini che si riferiscono sia ai miei nonni sia ad altri concittadini che hanno avuto la sfortuna di partecipare a questa immane tragedia. Compaiono in questo scritto caduti e sopravvissuti, tutti “protagonisti”, spesso inconsapevoli, di un inutile conflitto.  

INTRODUZIONE

La guerra m’ha raggiunto!
Io che stavo a sentire le storie di guerra come se si fosse trattato di una guerra di altri tempi di cui era divertente parlare, ma sarebbe stato sciocco di preoccuparsi, ecco che vi capitai in mezzo stupefatto e nello stesso tempo stupito di non essermi accorto che dovevo esservi prima o poi coinvolto. Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me sarebbe sprofondato nelle fiamme. La guerra mi prese, mi squassò come un cencio, mi privò in una sola volta di tutta la mia famiglia. Da un giorno all’altro io fui un uomo del tutto nuovo, anzi, per essere più esatto, tutte le mie ventiquattr’ore furono nuove del tutto. […] Sarebbe anche bello che qualcuno m’invitasse sul serio di piombare in uno stato di mezza coscienza tale da poter rivivere anche soltanto un’ora della mia vita precedente. […] Mi rese anche più nervoso l’incontro casuale con un plotone di soldati che marciava. Erano dei soldati non giovini e vestiti ed attrezzati molto male. Dal loro fianco pendeva quella che noi a Trieste dicevamo la Durlindana, quella baionetta lunga che in Austria, nell’estate del 1915, avevano dovuto levare dai vecchi depositi. […] Fu qui che cominciò la mia avventura. Ad uno svolto di via, mi trovai arrestato da una sentinella che urlò: – Zurück! – mettendosi addirittura in posizione di sparare. […] Mi ritirai con una certa premura che non m’abbandonò neppure quando il soldato non vidi più. Io non possedevo neppure un cappello che potesse servirmi per salutare. Inchinandomi varie volte e col mio più bel sorriso, m’appressai all’ufficiale il quale, vedendomi, cessò di parlare coi suoi soldati e si mise a guardarmi. […] – Was will der dumme Kerl hier? – (Che cosa vuole quello scimunito?). Stupito che senz’alcuna provocazione mi si offendesse così. […] L’ufficiale si mise ad urlare che, se facevo un solo passo di più, m’avrebbe fatto tirare addosso. […] In altre condizioni io mi sarei adirato enormemente. Invece quel giorno la grandezza dell’avvenimento storico cui avevo assistito, m’imponeva e m’induceva alla rassegnazione. Dalla frontiera verso la quale tendevo il mio orecchio non veniva alcun suono di combattimento. Otto o nove treni scendevano turbinando verso l’Italia. La piaga cancrenosa (come in Austria si appellò subito la fronte italiana) s’era aperta e abbisognava di materiale per nutrire la sua purulenza. E i poveri uomini vi andavano sghignazzando e cantando. Da tutti quei treni uscivano i medesimi suoni di gioia o di ebbrezza.  La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. […] La vita attuale è inquinata alle radici. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. […] Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. ( passi tratti da: “La Coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Edizioni cartiere del Garda, 1991).
La volontà di potenza delle nazioni accrebbe contrasti e dissidi nel continente europeo tanto da  agevolare la costruzione del sistema delle alleanze e al costituirsi di due blocchi contrapposti. L’area balcanica, in seguito all’indebolimento dell’impero ottomano, fu contesa dalle grandi potenze e dagli Stati slavi; l’eccidio di Sarajevo fece scoccare la scintilla che “incendiò” il mondo…  Il colonnello House, delegato americano a Berlino, scriveva così al presidente Wilson: “appena l’Inghilterra lo consentirà, Francia e Russia accerchieranno Germania e Austria. Gli inglesi non vogliono che la Germania continui a potenziare sempre di più la propria marina”. Dal diario del Ministro Sidney Sonnino, 1° agosto 1914, nella stazione di Trastevere a Roma: <<Prendo “Il Piccolo Giornale d’Italia” e leggo che iersera la Germania ha comunicato gli ultimatum alla Russia e alla Francia chiedendo la smobilitazione delle truppe>>.
Il trascorrere delle ore fece precipitare gli eventi: le forze dell’Intesa si opposero militarmente agli Imperi centrali con i rispettivi alleati. Contro ogni previsione, il Conflitto assunse proporzioni vastissime e un’indeterminazione temporale. I paesi in guerra stabilirono la coscrizione obbligatoria, il razionamento dei viveri e la censura. I combattimenti assunsero un carattere di equilibrio tanto da trasformarsi da guerra dinamica in guerra di trincea. In Italia gli Interventisti prevalsero sui Neutralisti. Il governo liberale di Salandra e Sonnino, con l’assenso del re, forzò la volontà del parlamento e trascinò il Paese in guerra. Fra gli Interventisti s’innalzò la voce dell’ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, il quale sul giornale da lui fondato “Il Popolo d’Italia” così scrisse: “Oggi -io grido forte- la propaganda antiguerresca è la propaganda della vigliaccheria.
[…] Il grido è una parola che non avrei mai pronunciato in tempi normali, e che innalzo invece forte, con sicura fede, oggi: una parola paurosa: “Guerra”. Alla guerra di unità nazionale inneggiarono, con ragione, gli Irredentisti che volevano far rientrare nei confini italiani tutte le terre irredente delle provincie di Trento e Trieste sottomesse al dominio straniero. Il 26 aprile 1915 con il Patto di Londra, l’Italia dichiarò guerra all’Austria. Il 24 maggio 1915 i soldati italiani varcarono la frontiera per aprire le ostilità. Così scriveva, riassumendo gli eventi, nel suo Diario personale il salvese Lezzi Raffaele,(mio nonno): “Nell’anno 1915, il 24 maggio, venne in guerra l’Italia alleata con la Francia, l’Inghilterra e la Russia contro la Germania, l’Austria e la Turchia insieme agli staterelli Balcanici. Per L’Europa  fu un’epoca di  dolori, di pianto, di persecuzioni, di desolazione delle famiglie perché tutti dovemmo partire per soldati, dove il padre, dove i figli, dove  il padre e i figli; poche erano le famiglie che non venivano colpite da questa tremenda piaga, vi potevano essere il 10 per 100 se pure, l’altre famiglie erano  tutte nella vera  piaga dell’agonia, che non solo portò via la  gente, sempre  per la guerra, ma pure portò via i muli, i cavalli e traini e così rimasero i paesi o città ignudi e deserti di tutto. Io Lezzi Raffaele che scrivo dovetti partire d’anni 41 (classe 1876) e altri d’anni 43 (classe 1874) e i giovanotti d’anni 17 e 18 ” (clase 1899). L’iniziale neutralità italiana portò a una convenzione navale anglo-francese siglata il 6 agosto 1914, la quale affidava la vigilanza dell’Adriatico alle unità francesi. I compiti furono: assicurare la protezione ai mercantili, contrastare le forze austriache e sorvegliare le acque del Canale d’Otranto. La marina austriaca poteva contare su basi navali sicure sull’altra e frastagliata sponda dell’Adriatico. Era passata la mezzanotte del 26 aprile 1915, quando a qualche miglio al largo di capo Santa Maria di Leuca, si consumò la tragedia dell’incrociatore corazzato francese Leon Gambetta, affondato da un sommergibile austriaco. Si salvarono centotrentasei uomini dei settecentonovantuno di equipaggio. I corpi recuperati furono cinquantotto; altri il mare li restituì nei giorni seguenti. Gran parte dell’equipaggio rimase intrappolato tra le lamiere della nave che ormai da cento anni riposa nei fondali di Leuca. L’episodio è ricordato da una lapide, che si trova all’ingresso della Basilica-Santuario dedicato alla Madonna a Leuca, mentre nel cimitero di Castrignano del Capo fu edificata una cappella funeraria, che ancora oggi accoglie diverse salme dei poveri marinai. La data del 26, quindi, ricorda due eventi importanti: a Londra fu deciso, in gran segreto, l’ingresso italiano nel conflitto a fianco delle potenze dell’Intesa; a Santa Maria di Leuca invece si consumava la tragedia dell’incrociatore francese Leon Gambetta. “L’invincibile” nave, silurata, affondò in un batter d’occhio. Il tragico evento fu il primo impatto dei paesi del Capo di Leuca con la Grande Guerra. La popolazione era incredula, non immaginava l’entità del conflitto né poteva immaginare il dispiego di mezzi, mai pensati prima d’allora: navi mastodontiche e potentissime, sottomarini, aerei, dirigibili, cannoni a lunga gittata, gas asfissianti e le micidiali mitragliatrici. Il Decreto di Mobilitazione non tardò ad essere comunicato, tramite il Prefetto Gallotti, anche ai nostri paesi:   “ Sua  Maestà  il   Re   ha  decretato  la  
mobilitazione  generale  dell’Esercito e della Marina e la requisizione  dei  quadrupedi  e  dei  veicoli.  Primo  giorno  di  mobilitazione  domani  23  corrente . Prego  allertare  ripetendo  integralmente  il  testo  del  telegramma ”.
Immediatamente scattarono le misure di sicurezza: divieto di riunione, di processioni e assembramenti, manifestazioni artistiche, fiere e mercati, celebrazioni di festività civili o religiose, limite alle spedizioni postali, censura sulla corrispondenza privata, vigilanza sui sospetti di spionaggio e su eventuali sommergibili nelle nostre acque. Furono attivati i soccorsi per le famiglie bisognose dei combattenti. Sostegni al limite della sopravvivenza, ma spesso l’unica risorsa per quei nuclei familiari con il capo famiglia al fronte. Dall’entrata ufficiale in guerra il flusso dei soldati verso il fronte non si arrestò più. Divisi per scaglioni, i contingenti dei precettati, ogni tre mesi, partivano per il distretto di Lecce o per la capitaneria di porto di Brindisi, per essere poi smistati nei depositi di fanteria dei rispettivi reggimenti o sulle navi di imbarco e trasferiti poi in prima linea sul fronte o sui mari per il pattugliamento. La guerra non fu più sola propaganda delirante di nazionalisti, futuristi e dannunziani delle “radiose giornate di maggio”, ma affondava nel cuore delle madri e delle mogli, dei figli e dei padri, dei paesi spopolati e al buio, con i campi abbandonati e soprattutto con i rintocchi cupi della campana a morto, con il conseguente annuncio del familiare caduto al fronte.
Questo si estendeva per più di cinquecento chilometri su e giù per le Alpi: dal passo dello Stelvio scendeva ai monti Lessini, risaliva per l’altopiano di Asiago, costeggiava la Val Sugana, su per la Marmolada, nel Cadore, correva lungo le Alpi Carniche e poi giù costeggiando l’Isonzo fino a Grado, sull’Adriatico. Fu il più potente esercito della storia italiana fino ad allora, affidato al comando del generale Luigi Cadorna.   L’anno 1915 il 19 di ottobre nella Casa Comunale di Salve, io sottoscritto Negro Notar Vito Sindaco e ufficiale dello Stato Civile avendo oggi ricevuto dal Comandante del deposito 29° Fanteria da Potenza copia di atto di morte che è del tenore seguente: l’anno 1915 e dalli sei del mese di luglio nelle pendici del monte San Michele mancava ai vivi alle ore 10 in età d’anni venticinque il soldato della 9 a Compagnia del 29° Reggimento Fanteria Chirivì Carmelo al numero 31900 di matricola nativo di Salve, provincia di Lecce, figlio di Fiorentino e di Panico Nicoletta, morto in seguito a ferita di pallottola, sepolto nel Bosco di Sagrado come risulta dall’attestazione delle persone sottoscritte: Milazzo Calogero e Bichiani Luigi. Per copia conforme il Colonnello Ottini, il Tenente Leggeri e l’ufficiale incaricato Vallori.  Eseguita la trascrizione… Notar  V. Negro.

Lo stillicidio di vite continuò giorno dopo giorno. I salvesi cadevano al fronte e al povero Carmelo seguirono i sacrifici di decine di ragazzi. All’indomani di Chirivì metteva fine alla sua giovane esistenza Vito Ciullo. Ecco quanto riportato dal Sindaco di Salve sul registro dei caduti in guerra nella sede comunale: l’anno 1915 e alli sette del mese di luglio, nell’ospedale da campo n.° 71 in Palmanova, mancava ai vivi alle ore sette e di età di anni ventiquattro, il soldato del 29° reggimento fanteria 9 a compagnia, matricola 34804 Ciullo Vito nativo di Salve provincia di Lecce e figlio Luigi e Vantaggio Raffaela. Morto in seguito ad anemia avuta conseguente a ferita di proiettile di fucile alla coscia sinistra con lesione dell’arteria femorale. Sepolto nel cimitero di Palmanova come risulta dall’attestazione delle persone a più del presente sottoscritte: dott. Livio Cramiz, Ramazazotti Anselmo, caporale di sanità, teste, Ascari Guglielmo, soldato di sanità, teste. Per copia conforme il sottotenente d’amministrazione Celestino Cesalini, visto il capitano medico direttore Primo Zanettini.  Eseguita la trascrizione… Notar  Negro.

Chirivì Carmelo e Ciullo Vito appartenevano al 29°reggimento fanteria, il quale insieme al 30°  formavano la Brigata Pisa. Questa ai primi del mese di giugno era riunita alle dipendenze della 21a divisione nei pressi di Versa (vicino a Romans d'Isonzo, nel Goriziano). Il 5 giugno entrò a Gradisca, schierandosi poi sulla riva destra dell'Isonzo: questo fronte vedrà gli uomini della "Pisa" impegnati nella quasi totalità delle contese qui combattute. Durante la 1a battaglia dell’Isonzo, passato il fiume all'altezza di Sagrado, la Brigata si dispiegò alle pendici del Monte San Michele, che fu teatro di scontro alla fine del mese, quando i reggimenti passarono sotto il comando della 19a divisione. Nel corso della 2a battaglia dell'Isonzo la "Pisa" continuò nei suoi tentativi di attacco verso le falde del monte San Michele: a costo di sensibilissime perdite, gli uomini conquistarono posizioni a quota 170. Nei combattimenti sostenuti per la conquista di questa porzione di vetta, trovarono la morte i nostri compaesani prima citati. Bisogna dire, per dovere di cronaca, che il primo conterraneo a cadere sul campo di battaglia e precisamente sul S. Michele fu Passaseo Nicola di Carmine, del 47° Regg. Fant., Brigata Ferrara, morto il 5 luglio 1915. L’offensiva sull’Isonzo contro le teste di ponte di Tolmino e Gorizia portarono a piccoli avanzamenti sul Carso. Si combatteva nella terra di nessuno. Uno morso di terra divideva le trincee nemiche largo nel suo punto massimo duecento metri e in altre parti queste quasi si sfioravano, si sentivano le voci, si percepivano i momenti di vita nelle ore di calma. Il fronte era rigido non si scomponeva, gli assalti erano inutili: costarono tante vite umane d’ambo le parti, era un inutile massacro. Durante l'inverno dell’anno 1916, i reggimenti continuarono ad alternarsi in linea, mentre si approntava una mina da far brillare il 17 aprile. Il giorno successivo allo scoppio degli oltre 5.000 kg di gelatina contenuti nella bomba, i reparti del 59° avrebbero dovuto lanciarsi verso la Cima Lana. Il 13 gennaio 1916 iniziarono i lavori di scavo di una galleria, con l'intento di far saltare la cima del Lana. Durante tutto l'inverno gli austriaci tentarono colpi di mano contro le nostre linee avanzate, creando grossi problemi anche ai lavori in galleria, che sarebbero dovuti rimanere segreti; tuttavia il cunicolo, denominato S. Andrea, proseguiva speditamente e a marzo raggiunse la lunghezza di 52 metri. Il 3 marzo furono percepiti rumori di scavo: gli austriaci stavano lavorando a un tunnel di contromina. Iniziò allora un febbrile lavoro, per entrambi gli schieramenti era d’obbligo arrivare primi. Il 12 aprile la galleria di mina italiana ebbe conclusione e iniziò il caricamento della gelatina esplosiva nei fornelli; contemporaneamente le truppe designate all'assalto della cima del Col di Lana si radunarono in gran copia nelle trincee sottostanti.
Il giorno 17 tutto era pronto, si attendeva solo l'ordine di brillamento. Per gli austriaci, che avevano captato il cessare dei lavori, iniziò una drammatica attesa: l'ordine era di non abbandonare la cima, mentre tutta l'artiglieria italiana del settore Tofane - Fedaia bombardava da ore le loro posizioni. Alle ore 23,35 esplosero i 5.500 chilogrammi di gelatina della mina, provocando un cratere ampio metri 30 per 55 e profondo 12. Migliaia di metri cubi di roccia furono scagliati in aria e ricaddero sulle posizioni austriache circostanti: alle ore una del giorno 18 aprile le truppe italiane terminarono il rastrellamento delle poche caverne rimaste, il presidio austriaco della cima fu quasi tutto sepolto nell'esplosione, il Col di Lana era italiano. Agli austriaci rimase la vicina cima del monte Sief. Nel corso dei combattimenti di rastrellamento dopo la grande esplosione, trovò la morte Giaccari Nicola di Quintino, sottotenente di complemento, del 59° Reggimento Fanteria, Brigata Calabria. Ferito a morte dai colpi dell’artiglieria nemica, rifiutò gli aiuti medici, per continuare a incitare e infondere coraggio alla sua truppa così da portare a termine l’azione cominciata con successo. Dopo alcuni  mesi  giunse  a  Salve il  certificato di Morte  che annunciava quanto avvenuto in quei tragici giorni di metà aprile: L’anno 1916, addì otto di settembre a ore dodici, nella Casa Comunale, il sottoscritto Negro Notar Vito Sindaco ed Ufficiale dello Stato Civile del Comune, avendo oggi ricevuto dal Ministero della Guerra copia autentica del certificato di morte, ho per intero trascritto. Il sottoscritto sottotenente Tucci Giovanni, incaricato della tenuta dei registri del 59° Regg. Fanteria, dichiara che l’anno millenovecentosedici ed alli diciotto del mese di aprile, nella infermeria provvisoria di Palla, mancava ai vivi all’età di anni ventuno il sottotenente Giaccari sig. Nicola del 59° R. F. 1a compagnia, classe 1895, nativo di Salve provincia di Lecce, figlio di Quintino e di Manco Crocefissa, morto in seguito a ferite riportata e sepolto a Palla Col di Lana come risulta dal verbale del Direttore dell’infermeria e firmato dai testi soldato Toti Tito, Franceseti Aldo. Per copia conforme l’ufficiale di contabilità Giovanni Tucci.   
Eseguita la trascrizione… Notar Negro.
L’accaduto commosse l’intera compagnia, tanto da portare il comandante Ceci Paolo
a scrivere una lettera di Condoglianze indirizzata al padre e a tutta la famiglia.  “Compio il pietoso ufficio di annunziarle la morte del Suo eroico figlio Nicola. Che dire di lui, che io ebbi tanto caro e che infinitamente stimai ed apprezzai per la sua nobiltà del cuore  e lo spirito di sacrificio?  Serio, riflessivo, dignitoso, colto, modesto, possedeva tutte le preziose qualità che fanno di un cittadino esemplare un ottimo soldato. E tale rimase fino all’ultimo suo respiro, fino a quando faceva olocausto alla Patria della sua generosa esistenza.
Coraggio, signor Quintino,
ed accolga per lei e i Suoi le condoglianze vivissime degli ufficiali e soldati del primo battaglione.  
La saluto caramente e mi metto a Sua completa disposizione. Capitano Ceci Paolo
.
               
Il 1916 per il comune di Salve, militarmente parlando, fu un disastro, diciotto soldati paesani caduti sui vari fronti di guerra. Nella brigata Bari militavano De Giosa Andrea Vincenzo del 139° Reggimento Fanteria, Corchia Vitantonio e Esposito Francesco del 140° Reggimento Fanteria. Rimasta a riposo sino a marzo 1916, la Brigata Bari venne poi inviata nel settore del Sabotino, dove sostituisce la Brigata Toscana. L’offensiva di primavera (Strafexpedition), lanciata a metà di maggio dagli austriaci sugli altipiani trentini, obbligò la “Bari” a trasferirsi sotto le pendici dell’altipiano d’Asiago pronta ad arginare ogni sfondamento nel settore della Val Frenzela. Iniziato in giugno il nostro contrattacco, ricevette il compito di superare il pianoro della Marcesina e conquistare il monte Confinale; riuscito l’attraversamento della piana sotto il tiro dell’artiglieria nemica, le truppe furono arrestate da robusti reticolati nella zona di Malga Mandrielle; la Brigata fu quindi costretta ad arrestarsi. Il 25 giugno il nemico operò un altro aggiustamento della sua linea e arretrò parzialmente. La Brigata cercò di sfruttare il momento e riprese ad avanzare: il monte Fiara fu conquistato, il Colombara e lo Zingarella solo avvicinati, la “Bari” perse dal 7 giugno al 12 luglio, 64 ufficiali e 1855 soldati. Fra questi anche il nostro De Giosa Andrea Vincenzo, ferito gravemente e poi trasferito nell’ospedale da campo n° 89, il 18 giugno. Dopo un periodo di riposo, la Brigata ritornò sull’Isonzo, sotto la quota 144 appena oltre Monfalcone. Il 10 ottobre si riaccese la lotta, il 139° operava a destra di detta quota, il 140° a sinistra; la colonna di sinistra sfondava e sopravanzava quota 144, la destra raggiungeva il vallone e Jamiano, poi venne contrattaccata e respinta; sono giorni di scontri con fasi alterne, la “Bari” ricevette l’ordine di sistemarsi a difesa delle conquiste fatte.  Ma il 31 ottobre riprese l’azione per la completa conquista della quota 144. L’ardua lotta per conquistare la quota vide cadere come “foglie in autunno” centinaia di soldati, il 10 e l’11 ottobre, proprio i giorni in cui iniziò la controffensiva italiana, morirono sul campo Rizzo vito del 47° Regg. fant. della brigata Ferrara e due militari del 140° fanteria, brigata Bari: Corchia Vitantonio e  Esposito Francesco. Ecco quanto dice il certificato di morte di De Giosa, trascritto fedelmente dal solito Sindaco e Ufficiale dello stato civile Negro notar Vito:    L’anno millenovecentosedeci addi cinque di ottobre nella casa comunale e alli ore dodici, io sottoscritto Negro Notar Vito sindaco avendo ricevuto dal Ministero della Guerra copia autentica dell’atto di morte che esattamente trascrivo: estratto dell’atto di morte del soldato De Giosa (Andrea) Vincenzo iscritto sul registro tenuto dall’89° ospedaletto da campo. Io sottoscritto ufficiale d’amministrazione dell’89° ospedaletto da campo 20° Corpo d’armata Ferrante signor Oreste dichiara che nel registro degli atti di morte trovasi iscritto quanto segue: l’anno millenovecentosedici ed alli diciotto del mese di giugno, mancava ai vivi alle ore sedici e all’età di anni ventotto il soldato De Giosa Vincenzo del 139° fanteria, 6a compagnia, matricola n°24588. Nato il 27.10. 1888 a Salve provincia di Lecce, figlio del Fu Francesco e di Ferilli Vita, ammogliato con Giudice Addolorata, morto in seguito a ferita da pallottola di fucile nella regione dorsale penetrante riportata in combattimento e sepolto ad Enerzo. L’ufficiale Ferrante Oreste visto il capitano medico direttore Inningardi Stanislao. Eseguita la trascrizione… Notar  V Negro.  
L’inverno 1916-1917 fu il più rigido di tutta la guerra. La neve rendeva impraticabili strade, sentieri e piste. Spesso le colonne delle salmerie erano travolte dalle valanghe e disperse dalle bufere, vanificando l’immane sforzo dei portatori e rendendo ancora più critica la sopravvivenza delle truppe in trincea, che aspettavano i rifornimenti. L’avanzamento sul campo di battaglia avveniva, di frequente, attraverso gallerie scavate nella neve. Si provocavano volutamente delle enormi valanghe proprio per aprirsi dei varchi oltre che per travolgere gli avanzamenti nemici. I fisici e gli animi dei soldati italiani erano allo stremo. Il malcontento serpeggiava anche tra gli ufficiali e gli alti gradi dell’esercito. La nazione intera protestava e scioperava. La risposta di Cadorna si risolse in un aumento parossistico delle esecuzioni sommarie (decimazioni). Il generale ormai era inviso a tutto l’esercito e anche al governo. Ma la guerra doveva continuare. In primavera, l’Inghilterra e la Francia chiesero all’Italia una nuova offensiva per alleggerire il fronte occidentale ed ecco che parte la 10a Battaglia dell’Isonzo, la più lunga e difficile della Grande Guerra: dal 12 maggio al 26 giugno del 1917. Sul terreno del carso i reparti di fanteria si dissanguarono per la conquista di un centinaio di metri verso il Monte Santo, il monte San Gabriele e San Marco. Una carneficina: 36.000 morti, 96.000 feriti, 25.000 dispersi e 10.000 prigionieri. Fra i tanti morti anche i nostri Carteni Antonio 31° Reggimento Fanteria, brigata Siena, disperso sul Monte San Marco il 14 maggio e Lionetto Alberto, sottotenente di complemento, del 95° Regg. Fanteria, Brigata Udine, morto sul medio Isonzo nello stesso giorno. Nella 10a battaglia dell’Isonzo la brigata Udine fu coinvolta in modo supremo compiendo dal 12 al 26 maggio una serie di brillanti attacchi, che portarono alla conquista d’importanti posizioni nel vallone di Paljevo e soprattutto sulle quote “363” e “Montanari”. Il successo fu ampio, ma anche le perdite risultarono gravose, più di 2000 uomini e A. Lionetto era tra loro. Il suo certificato di morte giungerà presso il comune di Salve due anni dopo e precisamente il 13 settembre 1919, così recita:     
L’anno millenovecentodiciannove addì tredici di settembre a ore dodici nella casa comunale, io sottoscritto DeVittorio Nicola assessore anziono funzionante sindaco per impedimento del titolare, Ufficiale dello Stato Civile del comune di Salve
, avendo oggi ricevuto dal Ministero per la [sistenza] militare di atto di morte ho per intero ed esattamente trascritto la copia seguente che è del tenore seguente: Divisione Stato Civile. Estratto di atto di morte dell’aspirante ufficiale Lionetto sig. Alberto, inserito nel registro degli atti di morte in tempo di guerra. L’anno 1917 il giorno 14 del mese di maggio, mancava ai vivi l’aspirante ufficiale Lionetto signor Alberto del 95° Fanteria, figlio di Giuseppe e Costanza Caro, morto in seguito a ferita di arma da fuoco nemico per fatto di guerra. Roma 5/9/1919, testi: il cappellano militare don Paolo Mattei, Fioravanti sig. Maurizio, il direttore capo del servizio (firma illeggibile).  
Il 1° agosto del 1917, il pontefice Benedetto XV implorò i belligeranti di mettere fine “All’Inutile Strage”. Il generale Cadorna, da parte sua, diede atto all’11a battaglia sull’Isonzo, ultima, prima della rotta di Caporetto. Gli obiettivi principali individuati furono i seguenti: attacco risolutivo alla testa di ponte di Tolmino, lungo il fronte del medio e basso Isonzo e sull’altopiano della Bainsizza; attacco sull’intero fronte carsico tendente alla conquista della linea monte Stol-Trstelj, linea Voiscica-Krapenka – SeloBrestovica, conquista del monte Hermada. La IIIa armata disponeva per l’attacco di sei Corpi d’armata, di cui il XIII° Corpo d’Armata nella zona di Monfalcone e del monte Hermada. Lungo il fronte isontino era schierata anche la IIa armata, che con la IIIa formava un colosso di ben 608 battaglioni, circa i due terzi dell’intero esercito italiano. Il 18 agosto iniziò l’azione dell’undicesima battaglia dell’isonzo. L’obiettivo monte Hermada fu assegnato al XIII° Corpo d’Armata. Alle ore 5 e 33 minuti il XIII° Corpo d’Armata assaltò la posizione Flondar. Nel giro di pochi minuti l’intero altipiano carsico si trasformò nuovamente in un inferno. Ovunque gli avversari si incunearono nelle posizioni italiane. Dalla Punta Sdobba pesanti cannoni da marina italiani colpivano inesorabilmente il settore meridionale del fronte: l’Hermada e le vie di comunicazione. Fu sulla quota 100 che il soldato La Harpe Gisberto
da Salve, matricola 27235bis, 28a Colonna Munizioni divenne protagonista di un’eroica azione:
  “Mentre con sereno sprezzo del pericolo era intento allo scarico di un cassone di munizioni nei pressi di quota 100, la notte del 18 agosto del 1917, sotto intenso fuoco di artiglieria nemica, una
scheggia di granata, sventrato il Cavallo che gli stava accanto, gli asportava il piede destro. Così gravemente ferito, consigliava ai compagni di non indugiare nell’espletamento del loro compito, e solo dai portaferiti poscia intervenuti si lasciava trasportare al posto di medicazione”. Per questo motivo il 15 aprile del 1919 il Ministro Caviglia gli conferì la medaglia d’argento a valor militare e poi nel 1971 ricevette il titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto. Il nonno Gisberto raccontava di aver passato brutti momenti sul letto di quel posto di medicazione, i dolori erano lancinanti e l’infezione avanzava inesorabilmente, tanto che i medici avevano paura di perdere il paziente a causa della cancrena. Decisero quindi di amputare il moncone rimasto più in alto della frattura, in modo da scongiurare l’infezione.
Durante la notte “lu Peppi coccu”
pregò con immensa devozione il santo del suo paese: San Nicola, il quale, secondo egli, fece bloccare la cancrena in modo da guarire definitivamente. A ventisette anni fu congedato come mutilato di guerra ed è vissuto sino all’età di 94 anni. È morto il 25 marzo del 1984. L’Italia era in ginocchio. Dopo Caporetto delle sessantacinque divisioni d’inizio ne rimasero solo trentatré. Ai veterani del Carso e dell’Isonzo si aggiunsero i ragazzi del 1899. Energia giovanile per gli ultimi sforzi della guerra. Questa dopo il Piave cambiò il suo essere: non si combatteva più per casa Savoia, per gli interessi delle lobby o le convinzioni degli interventisti, si lottava strenuamente per patriottismo. La guerra imperialista si trasformò in amor di patria. Ricevute notizie segrete sulle intenzioni degli Austroungarici, alle prime luci dell’alba del 15 giugno 1918, l’artiglieria italiana cominciò a tartassare il fronte nemico di là della linea del Piave.
Estratto del registro leva classe 1889 con il nome di Laharpe Gisberto.
   
Le truppe imperiali formarono tre teste di ponte: Montello; Grave di Papadopoli e a San Donà di Piave. L’attacco risultò terrificante, ma il fronte italiano resse l’urto Sul Montello. Il costo umano fu indescrivibile, ma gli austriaci fermarono il passo, grazie anche al notevole impegno dell’aviazione italiana. Francesco Baracca eroe e leggenda bombardò e mitragliò i campi del Montello a bassa quota tanto da lasciarci la vita il 19 giugno. La controffensiva italiana fu violentissima. Gli austriaci scapparono, il Piave pietosamente accolse migliaia di corpi dei nemici tra le sue acque. Il 23 giugno le nostre truppe riconquistarono Nervesa. In questi giorni di passione patriottica si compì l’atto di eroismo di Comi Antonio, soldato del 215° regg. Fanteria, il quale: “ con arditezza e coraggio non comune, sotto rabbioso e ostinato fuoco nemico, si offriva di pattuglia; spintosi molto avanti, afferrava un ufficiale nemico e, dopo averlo ferito, lo trascinava additandolo ai compagni, che spronava con la parola e con l’esempio alla conquista della trincea. Costante e mirabile esempio di attività, di energia e sprezzo del pericolo. Montello, saliente della Madonnetta, 15-19 giugno 1918”.  Il coraggio di Antonio fu premiato con la medaglia d’argento a valor militare, consegnata il 31 agosto del 1919. Congedato e tornato a Salve, ha concluso i suoi giorni per vecchiaia.


Alla Grande Guerra, com’è naturale, partecipò anche la regia marina con diverse tipologie navali, ma in questa occasione tratto del Cacciatorpediniere Intrepido, su cui era imbarcato il marinaio salvese Corciulo Augusto. All’entrata dell’Italia nella prima Guerra Mondiale  l’Intrepido faceva parte, con i gemelli  Impavido, Indomito, Impetuoso, Irrequieto e  Insidioso,  della 2a Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Taranto; comandante della nave era il capitano di corvetta De Grenet.  Il  9 giugno 1915  l’unità  scortò,  insieme  ai  cacciatorpediniere   Indomito, Irrequieto, Impetuoso, Insidioso, Animoso,  Ardito,  Ardente, Audace  ed all’esploratore Quarto, gli incrociatori corazzati Giuseppe Garibaldi  e  Vettor Pisani, partecipando al bombardamento dei fari di Capo Rodoni e San Giovanni di Medua. Il 3 dicembre la nave salpò da Brindisi al comando del capitano di corvetta Leva, per scortare, insieme alle pari classe Indomito, Irrequieto, Impetuoso ed Insidioso, uno dei primi convogli navali di rifornimenti per il fronte balcanico (trasportavano in tutto 1800 uomini e 150 quadrupedi). Il convoglio giunto all’altezza di San Giovanni di Medua, l’incrociatore Re Umberto, con 765 uomini a bordo, urtò una mina (posata dal sommergibile austro-tedesco UC 14) ed affondò, spezzato in due, in un quarto d’ora; i soccorsi, cui l’Intrepido contribuì recuperando un centinaio di naufraghi, permisero tuttavia di salvare 712 uomini. Dopo aver sbarcato a Valona i superstiti, l’Intrepido ripartì per effettuare una missione antisommergibile, ma alle due del pomeriggio del 4 dicembre, mentre rientrava da tale missione, a meridione di Capo Linguetta, urtò una mina il cui  scoppio  asportò  la prua  e  dilaniò  la sovrastruttura prodiera, uccidendo quattro uomini (il guardiamarina Valatelli e i marinai Polimene, Potenza e Pappalardo) e ferendone alcuni altri, tra cui, in modo grave, lo stesso comandante Leva.
La nave fu portata all’incaglio nei pressi di Punta Linguetta (Albania) per evitarne l’affondamento, ma, ritenendo di non poterla disincagliare e rimorchiare in condizioni di sicurezza, ci si limitò a recuperare il materiale riutilizzabile (cannoni, tubi lanciasiluri, altre apparecchiature) e venne quindi abbandonata. Quanto da me scritto, grazie ad alcuni documenti trovati, è riscontrato dal racconto fattomi anni fa dal figlio di Augusto, Pippi Corciulo. Alcuni giorni più tardi il  cacciatorpediniere affondò su fondali più profondi. Il relitto della nave  è stato individuato nell’aprile 2007, semidistrutto e sparso su fondali di circa 32 metri, nei pressi di Punta Linguetta. Il nostro compaesano, uscito indenne dal naufragio, tornò dai suoi familiari ed è vissuto a Salve sino alla fine degli anni settanta. Tra i vari argomenti da trattare riguardo alla Grande Guerra non può assolutamente essere trascurato quello della comunicazione. Milioni di lettere furono scritte nel freddo delle montagne, nella promiscuità delle trincee o dalle navi che solcavano il Mediterraneo. Soldati semi analfabeti che riuscivano, con enorme sforzo, a trovare la concentrazione per esprimere con semplicità la loro condizione di vita. Vi era poi chi, totalmente analfabeta, si affidava a un superiore, il quale con buon cuore scriveva la lettera sotto dettatura del soldato stesso. Tante parole in un Italiano incerto e stentato, ma che restituiscono l’idea di essere parte di una comune sorte tristissima a causa della quale si era costretti a diventare “macellai” oppure essere vittime del “macello”, per motivi imprecisati, sconosciuti, se non per un astratto obbligo di fedeltà alla patria. Erano carnefici e vittime incolpevoli di un’incomprensibile catastrofe storica, la quale ha prodotto sicuramente coesione sociale fra commilitoni, ma, come molti affermano, nessun senso unitario nazionale. Lo scrittore Antonio Gibelli afferma nel suo scritto “La Guerra Grande”: “le loro vite furono soltanto simultaneamente legate ad un unico filo, intrecciate fra loro, collocate su un unico orizzonte, segnate dagli stessi disagi, dagli stessi timori, dalle stesse aspettative, dalle stesse sofferenze;  furono attori  principali involontari di un unico evento ”.
 Tutto ciò compare nelle parole di tantissime cartoline scritte dai combattenti della provincia di Lecce e salentini in genere inviate al Santuario di Santa Maria di Leuca. Per questioni di spazio ne pubblico solo alcune anche perché nei numeri già editi  di  questo periodico altri hanno evidenziato l’esistenza di queste significative testimonianze. Tutti i paesi del Capo di Leuca hanno avuto almeno un soldato che scrivendo alla Madonna invocava la salvezza o la ringraziava per aver ricevuto il miracolo di una guarigione dopo un ferimento o grave mutilazione. I semplici testi dimostrano sì la devozione, ma anche l’ultimo appiglio cui aggrapparsi per giungere a un’agognata salvezza, a uno sperato ritorno alle proprie famiglie e nei propri campi di lavoro. In conclusione, dando un’occhiata alla statistica, i dati dicono che l'Italia, nel momento in cui scoppiò la 1a Guerra Mondiale, aveva alle armi 248.000 uomini ed aveva appena 2.250.000 cittadini con obblighi militari e con una pur sommaria istruzione; a questi 2.534.000 nel corso dei quattro anni di guerra vennero aggiunti altri 3.224.000 soldati, dei quali 2.788.000 rimasero per un periodo più o meno lungo nell'Esercito, mentre 720.000 furono dispensati ed esonerati per esigenze imprescindibili della produzione agricola, industriale e bellica nonché per il unzionamento dei pubblici servizi. I morti italiani per diretta causa di guerra si calcolano intorno a 680.000, ma bisogna aggiungervi -sia pure basandosi su astratti metodi di stima - una quota della mortalità verificatasi nella popolazione per concause di guerra, raggiungendo così la cifra di circa 750.000 vite umane. Di queste circa 6.000 appartennero alla R. Marina. I feriti passati per ospedali e ospedaletti, ossia quelli di una certa gravità (moltissimi tornarono dai posti di medicazione e sezioni sanità ai Corpi di appartenenza) si calcolarono nel numero di 1.050.000. Le spese, invece, per gli eserciti dal 1914 -‘15 al 1919 - ‘20 per l'intero costo finanziario della guerra italiana ammontarono tra i 94-96 miliardi di lire. La fine del primo conflitto mondiale, a Salve, così si commentava:     (dal Diario di Lezzi Raffaele)
“1918, Novembre.  Nei primi  giorni cessò  la guerra  europea  che l’Italia aveva intrapresa con l’Austria il giorno 24 maggio  dell’anno  1915. L’Austria  firmò l’armistizio con l’Italia che  fu  vincitrice;  la Germania  firmò  l’armistizio  con  la Francia  e  con l’Inghilterra, rimanendo  vincitrici Francia e Inghilterra.  L’Italia  fu  la prima  a risolvere  la questione  scacciando  gli  Austriaci che erano trincerati sul fiume Piave e gli  respinsero al di  là di Trieste così che l’Austria  fu  costretta a  cedere  le  armi.  I nostri prigionieri subito vennero  rilasciati  dall’Austria, ma i loro  rimasero  presso  di noi per  molti mesi e vennero  a  lavorare la terra per  seminare, infatti il mese di dicembre, nella masseria della  Palombara
, circa 40 prigionieri  furono  richiesti dal signor Sauli  per  coltivare  la  terra . Il Signor Sindaco di Salve, ossia il  municipio, per accomodare le strade dovettero prendere dei prigionieri che teneva l’Italia  dell’Austria  per  poterle riparare  essendo  che  non  c’era  gente a sufficienza. Riguardo questo artic. Le fonti storiche hanno chiarito in maniera soddisfacente l’evento, non mi resta altro che sperare che i giovani, se leggeranno mai questo scritto, abbiano consapevolezza di ciò che significa guerra.







FONTI:

1) La Coscienza di Zeno, di Italo    Svevo. Edizioni cartiere del   Garda,  1991
2) Muti passarono. Taviano e i   suoi caduti nella 1^ Guerra  Mondiale. R. Morelli,
    Congedo Editore, 2014 (Galatina LE).
3) Gagliano del Capo e la Grande  Guerra… Cosimo Rao,  Libellula, 2017.
4)  Albo d’oro dei caduti e decorati della provincia di  Lecce, Elio   Pindinelli,
     Salentino Editore, 2015.
5)  Archivio Storico del Comune di Salve.
6) Diario delle memorie di Lezzi Raffaele, 1905-1966.
7) Archivi privati familiari: Lezzi, LaHarpe, Giaccari, Giaccari-Filograna, Comi, Simone, Chirivì…
8) Ricerca fonti classi 3a A e 3a B, Sc. Sec. I gr. SALVE, a.s. 2014-‘15.
9) Archivio storico Santuario Mariano di Leuca.
10)  Leuca guerra e navi, a cura di Michele Rosafio, edizioni  dell’Iride, 2000.
11) Intrepido fino in fondo, rivista navi e relitti, Fabio Ruberti e  Massimiliano Rancan.
12) www.archivio di Stato di Lecce.
13) www.caduti Grande Guerra.it
14) www.xomer.virgilio.it
15) www.storia e memoria di Bologna.it
16) www.cime e trincee.it
17) www.Fronte del Piave.info
18)  www.e-bay.com    
19) La Memoria del Mondo, equilibri, DeAgostini scuola, Novara 2005  

 
 

Cartoline salvesi dal fronte

 
 
 
 
 
 




 
 
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